
Ristrutturare, recuperare il bello di un tempo, è qualcosa di nobile se compiuto bene, rispettando la natura dell’oggetto, recuperandone la sua anima offuscata dal tempo. La gente ristruttura case, antiche macchine, oggetti da collezione. La ristrutturazione di vigneto si muove su un livello diverso, recuperare un piccolo ecosistema, segue regole non scritte o forse scritte nel profondo di ognuno di noi, richiede l’interpretazione di energie antiche e impone un pensiero dinamico diverso. Infatti, bisogna provare a ricordare un passato diverso, mai vissuto, capire perchè secoli prima alcuni contadini che avevano tecnologie e saperi diversi dai nostri hanno compiuto scelte di impianto e coltivazione, cercare di leggere la storia delle piante, per capire cosa hanno vissuto, mentre immobili osservavano in silenzio l’alternarsi delle stagioni, mentre i vecchi di ieri nascevano, mentre noi piccoli uomini in mezzo a mille contrasti facevamo guerre, atterravamo sulla luna, curavamo malattie, aprivamo nuove fabbriche oscurando il cielo.
La ristrutturazione di un vigneto si occupa di materia vivente, e di relazioni universali tra esseri viventi con esigenze diverse, talvolta in contrasto con la produzione del grappolo stesso, talvolta in intima simbiosi. Non c’è una regola o un insieme di leggi, bisogna pensare di fare il meglio per qualcosa che un giorno vivrà oltre chi lo sta recuperando. La prima volta che mi arrampicai sul vigneto di Monte Ilice, ho avuto la sensazione di essere in un santuario, passavo in mezzo ad antiche viti più alte di me, vigorose, malgrado la mancanza di vere cure. La giornata era cupa e nuvolosa, ma dal vigneto si vedeva il mare. Venni colpita dal silenzio che mi consentiva di ascoltare la musica della natura che mi avvolgeva e che solitamente non riusciamo a sentire, migliaia di piante e animali che vivono, che respirano insieme. Una musica splendida disturbata solo dal suono dei miei passi sulla sabbia vulcanica.
Quando dopo diversi mesi Don Alfio decise di passare a me il testimone e la responsabilità del vigneto, e insieme riuscimmo a convincere tutti gli altri proprietari, decisi da subito di fare ordine rimuovendo le cose che erano state lasciate lì o costruite senza una logica di servizio alle viti. Una pulizia durata diversi mesi, tanti giorni di sudore e diversi viaggi di camion per portar via mattoni, reti, ferri, bidoni, vecchie porte, cose inutili messe lì chissà per quale motivo da decenni, segni umani invadenti da cancellare per consentire alla terra di ricominciare respirare. Completata la pulizia, non sapevo ancora cosa avrei dovuto fare. Avevo ascoltato tanti consigli di contadini, agronomi ed enologi, sicuramente più qualificati di me tecnicamente, ma la responsabilità era la mia, e così dovevano anche essere le decisioni. Ho trascorso tante ore nel vigneto, da sola o con altri, ho camminato tanto tra le vigne insieme a Don Alfio, che ne conosceva la storia degli ultimi cinquanta anni e che aveva protetto con tutte le sue energie fisiche ed economiche la parte di sua proprietà, il cuore del vigneto, la parte più forte e antica.
Una sera guardando le viti al tramonto seduta per terra sulla parte più alta di del vigneto a circa 850 metri sul livello del mare, decisi di seguire due sole leggi, quelle che riempivano l’animo di Immanuel Kant di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Era necessario un lavoro titanico, bisognava togliere tutte le piante secche, rompere gli apparati radicali superficiali con una zappatura profonda, risollevare tutte le viti, dotarle di nuovi pali tutori, riequilibrare le potature che in parte del vigneto lasciavano le piante con troppe spalle in una logica di quantità più che qualità.
La parte più difficile è stata tutta l’attività volta al sollevamento delle viti, è durata circa 5 anni. Bisogna sollevarle per gradi, scavare molto bene davanti e dietro la vite, senza danneggiare le radici e poi sollevarle delicatamente un po’ per volta. L’anno successivo ripetere la stessa operazione e sollevarle un altro po’, fin quando la pianta diventava parallela al palo tutore. Ho scoperto alcune viti sotto montagne di rovi, continuavano a produrre grappoli anche se abbandonate da decenni. Ho deciso di trasferirle per espianto in zone più appropriate del vigneto. Un’operazione delicatissima, ma di successo, non ne è morta neanche una.
L’impianto ad alberello etneo impone un palo tutore per pianta, rigorosamente in castagno proveniente dalle ceppaie dei boschi dell’Etna. Ho scelto pali di due metri, data la dimensione delle piante e nella speranza di ripetere questo investimento il più tardi possibile. Abbiamo aspettato la luna calante di Gennaio e Febbraio per razionalizzare le potature, rimuovere le spalle in eccesso e ristabilire il rapporto superficie fogliare/grappoli. Don Alfio non ha mai potato con luna crescente per “non fare piangere” le viti, infatti la gravità lunare comporterebbe una perdita di linfa dalle viti, ed in un vigneto con un suolo vulcanico giovane, privo di argilla e quindi di ritenzione idrica come Monte Ilice ciò comporterebbe uno sforzo eccessivo per le viti che rischierebbero di soffrire soprattutto in vista di stagioni potenzialmente siccitose.
Abbiamo effettuato analisi del terreno in diverse parti del vigneto, data la conformazione dello stesso era naturale trovare grande disomogeneità e l’obiettivo non era eliminarla, ma solo conoscerla. Abbiamo effettuato concimazioni rigorosamente in regime biologico per consentire alle viti che avevano sopportato lo sforzo del sollevamento e di potature più invasive di riprendere il loro ciclo naturale. Il suolo nel mio versante di Monte Ilice è rafforzato da una base azotata a causa dei sovesci naturali di lupino selvatico e un po’ favino che continuano ancora a crescere forse da secoli, bisogna mantenerli e integrarli.
Gli antichi per mantenere i vigneti, sostituivano le viti morte, le fallanze, con selvatico che poi avrebbero innestato prendendo il miglior materiale genetico dalla vigna stessa, o in molte parti dell’Etna, sfidavano la fillossera riproducendo piante a piede franco con il metodo della propaggine. Io ho rimpiazzato quasi tutte le fallanze, con nuove piccole viti di nerello mascalese e nerello cappuccio, riproducendole esclusivamente dalle viti prefillossera più antiche del vigneto. Quando si lavora al restauro di un’antica vigna bisogna dimenticare l’orizzonte temporale che la nostra biologia ci impone e dilatare i tempi in un’ottica multigenerazionale. Quando queste viti avranno cento anni forse la vendemmia la faranno i figli di mio figlio, o qualcun altro che avrà il vigneto nel cuore cosi come lo ho io. Saranno altri a trascorrere intere settimane da agosto ad ottobre tra mille preoccupazioni, nell’attesa dell’alba della vendemmia.
Per questo bisogna fare scelte che daranno i loro frutti nel lungo periodo. Dopo cinque anni di sacrifici sono certa di aver aiutato il vigneto a riprendere l’energia di un tempo, le viti hanno acquistato un colore più bello, una luce diversa, sono quasi consapevoli che per un altro ciclo generazionale qualcuno si prenderà cura di loro. Dentro di me ho dedicato ogni sforzo di questo restauro a Don Alfio, vorrei lui vedesse quanta gioia c’è adesso tra le sue antiche viti nel suo santuario, anche se alla fine penso che il vigneto lui non lo abbia mai lasciato veramente, ma continua a vivere lì, su Monte Ilice.