Vigneto Monte Ilice

Monte Ilice un cratere coltivato a vigneto per secoli

Circa 1000 anni fa una violenta eruzione aprì una bocca effusiva sopra il paese oggi conosciuto come Fleri. Le lave arrivarono fino al mare per immergersi nella riviera di Pozzillo. Le esplosioni crearono invece uno splendido cono vulcanico, uno dei più grandi dell’Etna: Monte Ilice. La forza della vita etnea ha presto trasformato il cratere in un’oasi, il nome Monte Ilice, deriva infatti dagli enormi esemplari di quercus ilex (leccio, in siciliano “ilice”) che hanno rapidamente popolato il bordo e l’interno del fertile cratere.

Gli antichi contadini ne hanno compreso presto le potenzialità agricole e hanno cominciato a coltivarlo già pochi secoli dopo della sua formazione. Il terreno di sabbia vulcanica nera e pietrisco si prestava perfettamente alla produzione di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Carricante, Catarratto e altre uve autoctone per la produzione di vini dell’Etna. Le uve grazie alla pendenza, all’esposizione e al suolo sabbioso si mantenevano intatte fino alla maturazione perfetta e il vino ottenuto veniva considerato di alta qualità e “atto alla navigazione”, ossia resistente ai lunghi viaggi in mare. Queste caratteristiche sono state fondamentali per la sopravvivenza del vigneto Monte Ilice nei secoli, perché i commercianti del porto di Riposto acquistavano a prezzo più elevato i vini di alta qualità e resistenti, che potevano raggiungere il nord Italia o l’Europa dove il vino veniva “pagato meglio”.

Questo maggiore prezzo ha consentito ai proprietari dei vigneti di Monte Ilice di giustificare i maggiori sforzi che dovevano essere sostenuti per coltivare il vigneto in un territorio così complesso, per la notevole pendenza e per la sofficità dei terreni sabbiosi che obbligava i vignaiuoli a fare “un passo avanti e due indietro”, mentre lavorano in vigna. Il cono era considerato talmente vocato che venne piantato un vigneto addirittura all’interno del cratere. Data la difficoltà nel trasportare l’uva in terreni così scoscesi, si costruirono piccoli palmenti in varie zone di Monte Ilice e dell’area circostante, al fine di vinificare direttamente sul posto.

Video Vigneto

Monte Ilice

Monte Ilice descritto da Giovanni Verga

“Se tu fossi qui, con me! Se tu potessi vedere codesti monti, al chiaro di luna o al sorger del sole, e le grandi ombre dei boschi, e l’azzurro del cielo, e il verde delle vigne che si nascondono nelle valli e circondano le casette, e quel mare ceruleo, immenso, che luccica laggiù, lontan lontano, e tutti quei villaggi che si arrampicano sul pendìo dei monti, che sono grandi e sembrano piccini accanto alla maestà del nostro Mongibello! Se vedessi com’è bello da vicino il nostro Etna! ….Tutto qui è bello, l’aria, la luce, il cielo, gli alberi, i monti, le valli, il mare! ….Tu non sei mai stata a Monte Ilice, poverina!…. qui in campagna, fra i monti, ove per andare all’abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli, ove non si ode né rumor di carrozze, né suon di campane, né voci di estranei, di gente indifferente. Questa è campagna!” 

Giovanni Verga, Storia di una Capinera, Monte Ilice, 3 Settembre 1854

L’abbandono dei vigneti di Monte Ilice

Malgrado le estreme condizioni vitivinicole, si è sempre continuato a produrre su Monte Ilice, che grazie ai suoli di sabbia e pietrisco vulcanici è riuscito a proteggere il proprio vigneto anche dalla fillossera. Ma la ricerca di lavoro in città e i flussi migratori verso l’estero hanno reso ancora più proibitivi i costi di gestione delle vigne eroiche su Monte Ilice, come commenta anche il magistrato e viticoltore Rosario Scalia Maugeri: [su Monte Ilice si produce] “un’uva da vino dalle particolarissime qualità, ma oggi, ahimè, quasi tutti i vigneti sono stati abbandonati…”

Il nostro vigneto

Il fianco sud del cratere Ilice risulta nei secoli sempre coltivato a vigneto e parzialmente a frutteto, con un area boschiva di lecci e betulle etnee. Il destino del vigneto cambia drasticamente quando il 16 Agosto 1944, Carmelo Torrisi, il proprietario dell’intero fondo, per testamento in nome di Sua Altezza Reale Umberto di Savoia Principe di Piemonte, lasciò in eredità una proprietà di circa sei ettari, coltivata principalmente a vigneto ai suoi undici nipoti ordinandone la divisione in parti uguali. L’assegnazione dei lotti ai nipoti avvenne mediante un sorteggio condotto da un bambino di sei anni di nome Umberto, di cui il notaio appurò lo stato di analfabeta, al fine di assicurare l’equità del processo. Vennero anche divisi gli edifici, tranne l’antico palmento, lasciato in uso comune a tutti i nipoti, che lo avrebbero utilizzato per decenni per la vinificazione.

Passarono gli anni e i lotti vennero coltivati con livelli diversi di intensità e passione, i lotti più ad ovest vennero purtroppo parzialmente abbandonati. Nel 1963 Alfio Puglisi, un giovane contadino appassionato di vigna, che aveva lavorato in vigneti sui vari versanti dell’Etna, venne a conoscenza del fatto che alcuni dei lotti del vigneto erano stati messi in vendita. Il giovane Alfio era alla ricerca di “un pezzettino di terreno” da acquistare. Andò quindi sul terreno, vide le vecchie piante e scavò con il suo piccone. Si innamorò della sabbia vulcanica soffice, “non ho mai trovato una pietra, le pietre che ci sono qui, le ho portate io”, e acquistò il terreno.

Negli anni il giovane Alfio coltivò il vigneto con amore e passione vera, e ogni volta che trovava sull’Etna una pianta da frutto o una vite dai frutti straordinari o “particolari” la riproduceva nel suo vigneto, il suo Eden, un patrimonio della bio-diversità etnea. Si deve a lui la sopravvivenza del vigneto e delle piante circostanti che il giovane Alfio, oggi Don Alfio, ha sempre curato per oltre mezzo secolo, senza ricorrere a prodotti chimici, ma seguendo la natura e le sue fasi e i suoi segni, sia in vigna che in cantina. Con l’avanzare degli anni la preoccupazione di Don Alfio è diventata la sopravvivenza futura del suo vigneto e a chi passare il testimone della cura delle sue piante. Una fredda mattina ancora invernale, Don Alfio mi ha parlato della sua preoccupazione e mi ha portato a vedere le sue viti. Saliva più velocemente di me aiutato dal suo vecchio bastone di carrubo.

Mappa
Vigneto Monte Ilice

Camminare sul fianco di quel cratere, su quello splendido e ripido suolo di sabbia nera vulcanica, tra le antichissime viti è stato come entrare in un santuario, un luogo in cui bisogna avere rispetto per tutto quello che hai attorno, un luogo in cui la natura trascende le imposizioni dell’uomo e segue le sue leggi. E Don Alfio era il custode fedele di questo santuario. Don Alfio comprendeva che la sopravvivenza del suo vigneto dipendeva dall’unificazione della proprietà nello stato prima della divisione del 1944. Si è così prodigato per consentire una vendita da parte di tutti i proprietari.

Dopo aver raggiunto un accordo con ogni parte (sono state coinvolte circa 20 persone), la gestione del vigneto e del terreno è passata a SantaMariaLaNave, ma la proprietà è stata trasferita soltanto nel 2016, a seguito di un complesso iter legale e catastale al fine di ricostruire, completare e sanare tutti i passaggi dei titoli di proprietà che si erano avvicendati nei decenni. Rumore umano, mentre le antiche viti del nostro vigneto sul fianco del cratere, baciate dal sole e dal vento del mare, continuano a spingere le loro radici tra le sabbie vulcaniche e a produrre splendidi grappoli di Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Carricante, Catarratto e molte altre varietà autoctone.

Tutte, anche le piante abbandonate da molti anni e coperte dai rovi e danneggiate dall’incuria. A loro la nostra promessa di rispettare quel santuario, dedicando ad esso le nostre fatiche, custodendolo con amore vero e riportandolo all’antico splendore che merita.