L’impatto del vulcano nel vino
L’attività vulcanica storica ha un impatto imponente, tutto il suolo in cui affondano le radici delle vigne etnee ha origine vulcanica, anche in quei terreni che hanno uno scheletro lavico profondo e una parte superficiale organica, che si è creata nei secoli sempre partendo da un suolo esclusivamente composto da materiale eruttivo. L’impatto dell’attività più recente dipende dall’anno e dai fenomeni eruttivi, e ovviamente dalla collocazione del vigneto in termini di versante ed altitudine. Ci sono anni in cui l’Etna da luogo a 15-20 fenomeni eruttivi, con grossi riversamenti di cenere sui vigneti, a volte anche piogge di pietre di varia dimensione e peso.
Quando vedo grosse cadute di cenere e sabbia vulcanica dall’Etna, mi spiace per i disagi che crea alla popolazione, si blocca l’aeroporto, ci sono spesso danni al sistema idrico, le strade diventano meno sicure, ma il viticoltore ringrazia Madre Etna per i doni, quello che io amo chiamare il “bio-fertilizzante gratuito”. Poi se per un attimo ci si ferma a pensare al fatto che cenere e sabbie e vulcaniche arrivano in qualche modo a noi dalle profondità del nostro pianeta, c’è qualcosa che va oltre i minerali fertili che cadono sul vigneto, qualcosa di molto più antico: una forza ancestrale, qualcosa di puro e atavico che va aldilà del concetto scientifico o pratico di agricoltura.
Il ruolo dell’uomo etneo nella viticoltura del vulcano
L’uomo etneo ha avuto un ruolo cruciale. Innanzitutto in un territorio vulcanico giovane, il terreno a scopi vitivinicoli o, più in generale, agricoli va conquistato. E’ un lavoro che richiede anni, in certi casi secoli. Gli antichi uomini etnei “spietravano”, ossia toglievano le pietre dai campi e con le pietre costruivano muri a secco per creare le terrazze, che erano il bacino fertile in cui si svolgeva la produzione agricola. I muri a secco erano e sono dei veri e propri monumenti, dei capolavori, noi siamo abituati a vederli, sono parte dei panorami con cui siamo cresciuti, ma dobbiamo fermarci a riflettere a tutta la fatica che c’è dietro quelle costruzioni, una vera e propria conquista del territorio: l’Etna aveva coperto una zona con le lave, successivamente le ginestre prima e tutte le altre piante selvatiche poi, con l’aiuto del vento, delle piogge e delle escursioni termiche, hanno cominciato a distruggere con le loro radici il manto lavico, trasformandolo in materiale organico, l’uomo poi ha pulito il terreno e lo ha razionalizzato in terrazze. Ogni volta che crolla un muro a secco sull’Etna, purtroppo perdiamo un pezzo di storia.
Nei secoli l’uomo ha anche selezionato le viti migliori per ogni zona, per ogni altitudine, per ogni terreno. Ancora tra vecchi viticoltori o innestatori dell’Etna esiste una gioia spontanea nello stupirsi quando vedono una pianta che in qualche vigneto o frutteto ha una produzione particolarmente qualitativa, e l’usanza di regalare gli innesti per la propagazione delle piante migliori ha fatto il resto. Gli antichi vigneti tradizionali etnei sono una comunità di cloni autoctoni diversi, che gli antichi viticoltori portavano da vigneti più o meno limitrofi, quando vedevano che i risultati erano di alta qualità. Un patrimonio incredibile di diversità genetica che va custodito gelosamente.
Poi non ci dimentichiamo l’altro merito dell’uomo etneo, ossia di aver tramandato nei secoli il metodo di viticoltura ad alberello: ogni pianta ha un suo palo tutore, rigorosamente di castagno etneo. Questo metodo è molto indicato per la produzione di eccellenza, perché consente, se ben gestito, di mantenere una bassa produttività della pianta e soprattutto di spingere la longevità della vite ai suoi limiti più estremi, oltre a conferire al vigneto un’eleganza estetica straordinaria, grazie alle simmetrie che si vengono a creare in base ai punti di osservazione. Ma l’aspetto più interessante e allo stesso tempo più romantico del metodo di coltivazione ad alberello, è il fatto che venga preservata l’individualità di ogni vite, è più facile conoscere le proprie piante e capirne le dinamiche vegetative e produttive.
Nel mio vigneto considero le mie piante come collaboratori fedeli, so che ogni vite produce uva al massimo per una bottiglia di vino, nella coltura ad alberello, posso confrontarmi con la loro individualità, con i loro diversi “caratteri”: c’è chi produce prima, chi produce di più, le piante più pigre, quelle la cui uva ha un contenuto zuccherino più elevato… E tutte lavorano insieme per il risultato che si troverà nel bicchiere. E’ una cosa stupenda! Certo bisogna considerare che il metodo ad alberello è estremamente costoso e non consente nessun tipo di meccanizzazione, ma se si vuol produrre un vino eccellente, la cura delle attività manuali non può essere rimpiazzata da una o più macchine. La donna o l’uomo sono stati e saranno sempre cruciali.